a cura di Gianni Canova/Duellanti

Respinto dall’ultima Mostra del cinema di Venezia, il nuovo film di Daniele Segre Mitraglia e il Verme disegna un feroce apologo beckettiano sul destino dei nuovi poveri costretti a vivere ai margini del mondo globalizzato.
In questa intervista, il regista spiega a Duellanti l’urgenza che l’ha spinto a realizzare un film così scomodo e anomalo.

Dopo Vecchie del 2002, per la seconda volta nel giro di due anni hai tradito il documentario e ti sei cimentato con la finzione. Perché?
Perché avevo voglia di continuare a sperimentare linguaggi nuovi, avevo voglia di provare nuovi modi di rappresentazione. Il progetto di Mitraglia e il verme nasce in particolare dall’incontro con due straordinari attori come Antonello Fassari e Stefano Corsi, e dal desiderio di lavorare con loro. Non credo di aver “tradito” la mia storia né tanto meno la mia passione per il “cinema della realtà”: penso piuttosto di aver provato a mettere a fuoco un modello di finzione che si muove continuamente sul confine delicato che separa e congiunge il falso e il vero.

Al di là di questo intento “teorico”, il film pare attraversato però anche da altre “urgenze”.
Certo: Mitraglia e il Verme esprime anche – così almeno mi auguro – il mio personale sentimento di indignazione. Mi é venuto fuori quasi naturalmente: volevo che fosse forte, che non ammettesse alibi. Che trasmettesse il disagio di vivere nel nostro tempo inquieto e privo di certezze. Che lasciasse traspirare la drammaticità delle condizioni di vita dei “nuovi poveri”, quelli che più di tutti stanno scontando il collasso dei nostri sistemi di riferimento.

Perché la scelta di girare in sequenza e di non ricorrere al montaggio?
Prima di tutto per valorizzare al massimo la prova degli attori e per sottolineare la loro bravura (…o abilità) nel reggere con tale intensità scene così lunghe. Ero e sono convinto che in questo modo sia più facile captare e rendere visibili i momenti di autenticità che gli attori riescono a produrre sul set. Anche se ho girato con piccole videocamere digitali, il vincolo del punto di vista fisso mi è servito per rafforzare le unità di tempo, luogo e azione su cui era scandita la drammaturgia del film.

A fronte di questo impianto drammaturgico molto classico, la scenografia presenta invece alcuni elementi poco canonici, soprattutto nel secondo atto, quello dedicato al sogno del Verme…
Ti riferisci per esempio ai pisciatoi collocati sulla parete secondo una geometria che li rende quasi elementi astratti del décor, e che ne vieta un uso – per cosi dire – funzionale?

Anche a questo, certo. E a quel tanto di metafisico che la fisicità della scenografia riesce a comunicare…
Credo tu abbia usato l’aggettivo giusto: metafisico. Avevamo in mente De Chirico, nel costruire quello spazio. Magari un De Chirico riletto con le lenti di Picasso, ma insomma: con quel trattamento della scenografia volevamo capovolgere e stravolgere il reale, e soprattutto prendere le distanze in modo molto netto da ogni tentativo di leggere il film in chiave realista o naturalista.

Modelli? Suggestioni?Punti di riferimento?
Se posso, rubo tutto quello che è possibile rubare. Lo faccio in relazione all’emotività, alla sensibilità, alle forme della rappresentazione. Qui, in Mitraglia e il Verme, credo ci sia qualcosa del mio amore per Fassbinder, per il suo modo di lavorare, per il suo lavoro sui corpi, per come sapeva contaminare cinema e teatro. Poi, forse, c’e anche qualcosa di Pasolini, e della sua riflessione antropologica sulla borghesia. Per non parlare dei riferimenti teatrali, che mi sembrano ovvi ed espliciti: Pinter, per esempio. E poi, soprattutto, Samuel Beckett.

Perché la scelta del bianco e nero?
Per la verità abbiamo girato a colori e poi abbiamo decolorato il tutto. Perché? Perché ci sembrava fosse più forte così. O, forse, perché questo è un periodo in cui vedo in bianco e nero.

Che idea ti sei fatto della scelta della Mostra di Venezia di rifiutare il film?
È una riflessione, una valutazione che lascio volentieri a te e alla tua categoria. Siete voi critici che dovreste provare a spiegare certe scelte. La mia impressione è che Venezia quest’anno non volesse far vedere al mondo i panni sporchi dell’Italia. Mi sembra di aver fatto un film non consolatorio, probabilmente fastidioso. Questa almeno è la ragione che mi do io. In passato, di fronte ai miei film piu difficili e inquietanti, mi sono sentito apostrofare da uomini di potere con l’epiteto di “poeta”. Questa volta non 1’hanno fatto. Non mi hanno detto niente. Vorrà pur dire qua1cosa…